12 Maggio 1977 |
ripreso dal blog di Loredana Lipperini |
Erano, naturalmente, accadute alcune cose nei mesi precedenti: su tutte, la morte di uno studente di Bologna, Francesco Lorusso, ucciso dalla polizia. E i carri armati (ripeto, i carri armati) inviati dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga in quella città. Sempre Cossiga, il 22 aprile, vieta qualsiasi tipo di manifestazione pubblica fino al 31 maggio: il giorno, prima durante uno scontro a San Lorenzo, era morto l’agente di polizia Settimio Passamonti. Dunque, il Partito Radicale decide di convocare una manifestazione-spettacolo-sit in a piazza Navona, per festeggiare l’anniversario del referendum sul divorzio. Una manifestazione, come è caratteristica di quel partito, nonviolenta. La cronaca di quel giorno è l’impressionante ricostruzione di una strategia omicida. Che comincia alle 13. A piazza Navona c’è un palco. Ci sono anche tre pullman carichi di agenti di polizia e un autocarro dei carabinieri. Alle 13 esatte un reparto di questi ultimi si avvicina al palco e comincia a smontare gli altoparlanti e le apparecchiature elettriche. La piazza è piena di gente. Alle 14 vengono bloccate le sette vie d’accesso di piazza Navona. Turisti e passanti vengono fatti defluire. Riescono a passare solo alcuni giornalisti. Nelle strade intorno, si fermano mezzi blindati e autocarri. C’è una cosa che stupisce nelle cronache e nei dossier che riguardano il 12 maggio 1977, ed è il valore testimoniale della stampa. Tutti i giornalisti presenti alla manifestazione scrivono cronache dure, precise e corredate da prove fotografiche: e tutte smentiscono la versione ufficiale dei fatti. Questo è il dato positivo: quello negativo è che, nonostante questo, non sia accaduto nulla e nessuno è stato, infine, dichiarato colpevole. Per esempio, Luigi Irdi, cronista del Corriere della Sera, racconta con dovizia di particolari il primo pestaggio di passanti e militanti radicali a cui ha assistito: Fabrizio Carbone, redattore de La Stampa, viene fermato alle 14.30, nonostante l’esibizione del tesserino, viene messo faccia al muro, perquisito, infine lasciato andare. Ma mentre arriva davanti al Senato sente un agente dire a un collega “ai giornalisti ci pensiamo noi”. Sono le 15. Il giornalista de La Repubblica Carlo Rivolta arriva a piazza Navona, assiste al pestaggio del deputato Mimmo Pinto al grido di “Vai a lavorare” e “Mi fai schifo”. Pinto lo implora: “Hai visto cosa mi hanno detto? Scrivilo”. Un carabiniere replica: “Scrivi un cazzo, tanto non ci potete fare nulla”. Il collega del Messaggero, Leandro Turriani, cerca di fermare il pestaggio. Un funzionario lo allontana: “Lei fa politica, vada via”. “Sono un giornalista”, risponde, con il tesserino fra le mani. Viene portato nel cellulare. Ai fotografi si chiede di consegnare i rullini. Alle 15.45 parte la carica a piazza San Pantaleo e, come per un segnale concordato, a Sant’Andrea della Valle. Si sparano lacrimogeni ad altezza d’uomo anche a piazza delle Cinque Lune. E’ il panico. Alle 16, un reparto militare si ferma in piazza della Cancelleria. Gli agenti in borghese hanno anche pistole mitragliatrici.La polizia carica: quindici ragazze e una donna anziana vengono travolte, cadono, vengono colpite con calci e manganeli. Candelotti vengono lanciati anche contro le finestre e le persone che si affacciano. Due vengono centrate, in via dei Baullari e in vicolo dell’Aquila. Francesco Cossiga dichiara: I cronisti, puntuali, smentiranno ogni parola. A piazza San Pantaleo, per esempio, c’era il redattore del Messaggero Renato Gaita. Nota i reparti della celere schierati sotto Palazzo Braschi. Nota, dall’altra parte della piazza, duecento ragazzi che commentano quel che sta succedendo. Nota il funzionario di polizia, dottor Luongo, che improvvisamente irrompe fra loro e trascina via un ragazzo. Alla richiesta, pacifica, di spiegazioni, fa partire la carica: i lacrimogeni vengono sparati ad altezza d’uomo. E’ in questo momento che avviene il pestaggio delle ragazze e della donna cinquantenne. Gaita si sposta. A piazza della Cancelleria vede sfilare una colonna della celere. Sul marciapiede c’è un ragazzo, solo. La colonna gli passa davanti. Dall’ultima camionetta un agente solleva il telone, punta il fucile col lacrimogeno innestato, spara. Il candelotto prende in piena schiena il ragazzo, lo scaraventa a terra dopo un volo di cinque metri. La colonna si ferma, dalla jeep scendono quattro agenti che circondano il ragazzo caduto e lo prendono a manganellate, mentre uno di loro gli sferra un calcio in piena faccia. Ma Gaita nota altro, in quella piazza. Un agente che “estrae rapidamente la pistola e spara a braccio teso”. Nessuno, in quel caso, viene colpito. Nel frattempo. Nel frattempo. Nel frattempo. Nel frattempo. Non sono ancora le 16.30. Alcune pallottole si conficcano nell’insegna dei negozi. Il giorno dopo, rispondendo alla Camera, Cossiga dirà che “la polizia ha dimostrato d’aver grande senso di prudenza e di moderazione”. Fra le 16 e le 16.30 Luigi Irdi del Corriere della Sera è a corso Vittorio, che si è riempita di curiosi e manifestanti che non possono raggiungere piazza Navona. Davanti a sè, Irdi vede un gruppetto di ragazzi che si è rifugiato davanti al cancello di un istituto religioso. Vede la jeep che passa, vede il candelotto che raggiunge il ragazzo solitario “poco sotto la nuca”. Assiste al pestaggio. Comincia a pensare che “la polizia abbia ricevuto l’ordine di disperdere ogni piccolo assembramento, non riparmiando lacrimogeni”. Alle 16.15 Filomena vede i poliziotti in borghese a piazza della Cancelleria. Li vede avanzare “con le pistole spianate”: ne nota uno, che è importante per questa storia. Ha una maglia bianca con una striscia blu. Li vede anche Carla, che sta andando a casa con un’amica. Sono le 16.30. Gli autobus sono intrappolati a largo Argentina. L’aria è satura di fumi tossici. Dieci persone a bordo della linea 87 vengono portate in ospedale: la diagnosi è intossicazione. Anche Silvia, rinchiusa nello stesso negozio di accessori per il bagno di corso Vittorio (dove viene medicato il ragazzo pestato) vede gli agenti in borghese. Sono armati di pistole e bastoni. Anche lei nota l’uomo con la maglia bianca e la striscia blu. Alle 17, un ragazzo è a piazza Farnese. Nota che davanti alla trattoria “La Carbonara” ci sono due blindati della polizia. Nel gruppo c’è un agente in borghese, travestito da manifestante. Prima parla con i colleghi in divisa. Poi si allontana, si mescola a un altro gruppo di ragazzi (stavolta veri manifestanti) e avanza di nuovo, ma “mascherato”, verso la polizia facendo con la mano il gesto della pistola (il segno della P38, all’epoca utilizzato dagli autonomi). Il testimone non ha tempo di vedere altro. Perchè in quel momento qualcuno spara e viene colpito al polso e alla spalla. Anche Marco sta passando in piazza della Cancelleria. In quel momento sente un colpo d’arma da fuoco. La macchina accanto vibra. Il proiettile trapassa il sedile anteriore e quello posteriore, si ferma nel portabagagli. E’ il panico. Quasi tutti cercano di scappare verso piazza Farnese. Alla Camera, Francesco Cossiga riferisce di “nuovi incidenti avvenuti tra le ore 17 e le 19.30″ e di “aberranti bravate” compiute dai manifestanti. Il peggio deve ancora venire. Intorno alle 18 la parte finale di via dei Baullari è occupata interamente dalla polizia. Il fuoco di sbarramento di candelotti è spaventoso. Alle 18. 10, Leandro Turriani vede gli agenti in borghese avanzare, con i bastoni in mano. Da via del Pellegrino avanzano anche i poliziotti in divisa. Si nasconde in un portone insieme a quattro fotoreporter. Un agente prende la mira con il fucile contro di loro. A piazza della Cancelleria due agenti in divisa si portano sul portone di destra di una chiesa: estraggono le pistole e cominciano a sparare contro i dimostranti, ad altezza d’uomo. “Cerco di riprenderli, dice Turriani, con la mia macchina fotografica. Uno dei due si accorge e mi punta contro una pistola. Dopo qualche minuto se ne vanno dopo aver raccolto i bossoli”. Dalle 18.40 alle 18.50 i poliziotti sparano almeno venti colpi di pistola. Turriani incontra Emma Bonino, in lacrime: “Per carità, cerchiamo di uscire prima che ammazzino qualcuno”. Anche lei ha ascoltato la frase rivolta a giornalisti e fotografi, che viene registrata: “Se non ve ne andate vi spariamo addosso”. Cerco di ricordare le strade che conosco. Cerco di ricordarle come erano allora, oscurate dal fumo dei lacrimogeni, invase da ragazze e ragazzi in fuga, con gli autoblindo in corsa. Cerco di ricordarle con gli occhi di un testimone, Giovanni Salvatore, che alle 19.15 di quel 12 maggio sta andando al negozio di suo fratello, a via del Governo Vecchio. Si trova sul lungotevere Sanzio, vede un corteo, cerca di capire da chi è composto, ne raggiunge la testa. E in quel momento la polizia, che si è attestata all’angolo tra Ponte Garibaldi e lungotevere Sanzio, lancia le bombe lacrimogene. Giovanni scappa verso viale Trastevere. La polizia torna indietro. Si ferma all’altro imbocco di Ponte Garibaldi, dalla parte di via Arenula. Ci sono molte persone su quella strada, molte altre sedute sui gradini dei marciapiedi attorno a piazza Belli. Sul lungotevere Anguillara, dove c’è il distributore di benzina, sono fermi due vigili in motocicletta. Sono ormai le 19.45. Giovanni sente i colpi di un’arma da fuoco. Sono secchi, li riconosce subito. L’inquadratura cambia. L’inquadratura cambia ancora. Ancora un’inquadratura. La conosco da una foto tessera, quelle in cui abitualmente si viene male, e che si nascondono in tasca o in borsa (“no, dai, sono orribile qui”). Giorgiana Masi, invece, era bella anche in quella fotografia. Gli occhi erano tristi, però. Ci sono delle immagini che, per un motivo insondabile, preannunciano la morte, perchè lo sguardo è fisso lontano, verso un orlo sfilacciato. Dopo quell’orlo, il buio. Effetto retroattivo. Eppure, mi fa quell’impressione. Giorgiana Masi è figlia di un parrucchiere e di una casalinga. Frequenta il quinto anno del liceo scientifico Pasteur. Ha un ragazzo, si chiama Gianfranco Papini. E’ con lui, intorno alle 19.30 a Ponte Garibaldi. La ricorda bene una bambina di undici anni: la bambina si chiama Simona, è uscita dalla scuola di danza, si trova coinvolta nel disastro in cui si è trasformato il lungotevere. La bambina guarda, affascinata e spaventata. Finchè una ragazza la prende per un braccio. “Vattene via, qui è pericoloso. Fra poco qui sparano”. La accompagna fino all’inizio di Ponte Garibaldi. Simona capisce, infine, il pericolo, si mette a correre. Mentre scappa vede, su lungotevere Anguillara, “uomini con divisa con un fucile o un mitragliatore non so, puntato ad altezza d’uomo”. Sente i colpi d’arma da fuoco. Corre più forte. Il giorno dopo, Simona vede sul giornale una fotografia di Giorgiana Masi. La riconosce: è stata a lei a prenderla per il braccio, e a farla fuggire. Ma è ancora il giorno prima. Giorgiana muore prima di raggiungere l’ospedale. Le cose finiscono. Finisce anche quella giornata tremenda. Il cronista del Corriere della Sera, Andrea Purgatori, resta a Ponte Garibaldi fino alle 21.45, prende nota dei tantissimi agenti in borghese presenti nella piazza. Poco dopo le 21, si sparge la notizia della morte di una ragazza. Insieme ad altri colleghi, Purgatori chiede conferma al dirigente dell’ufficio politico Umberto Improta, che dichiara: “Non mi risulta nulla. La radio non ha comunicato niente. L’ospedale non ha detto nulla. La polizia non ha sparato”. Questa frase, “La polizia non ha sparato”, verrà ripetuta a lungo, nei giorni successivi. Nella controperizia di parte civile, depositata il 6 dicembre 1978, si determinerà che Giorgiana Masi venne uccisa “da un colpo d’arma da fuoco a proiettile unico, trapassante, con traiettoria pressoché ortogonale al dorso della ragazza (e cioé parallela al terreno) sparatole alle spalle”. Il calibro era di 6 millimetri. Si trattava di un “proiettile blindato e dotato di grande energia vulnerante”. Secondo i controperiti, un proiettile calibro 22 Magnum blindato, compatibile con l’assenza di tracce di piombo nel corpo di Giorgiana, e sparato da 40/60 metri. La causa della morte, si legge nell’autopsia, fu “emorragia interna massiva conseguita a dilacerazione dell’aorta in prossimità della sua biforcazione”. Non ci fu quasi tempo, per Giorgiana, per capire davvero. A trentotto anni di distanza, non è stato dato modo, a chi è sopravvissuto e a chi non era ancora nato, di sapere chi l’ha uccisa. Anzi.
|